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Animatore Digitale: una nuova risorsa o un déjà vu?

La figura dell’Animatore Digitale, al di là della sua etichetta forgiata in un registro linguistico di tipo propagandistico, vero segno dei tempi, può acquisire un senso se mette in gioco gli strumenti disponibili per la comunicazione e condivisione interna ed esterna e se riveste il ruolo dell’enzima che favorisce l’emergere di disponibilità e competenze latenti, mentre se recita la parte del tecnologo «pontificatore», depositario di strumenti salvifici, è destinato al fallimento. Tuttavia l’ambiguità di questa figura e l’incertezza del suo statuto sembrano la conseguenza di un approccio al tema dell’innovazione scolastica eccessivamente decisionista, forse viziato da presupposti ideologici non sufficientemente meditati dal punto di vista epistemologico e didattico e in parte condizionato da antiche carenze organizzative.

Il Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD, http://www.istruzione.it/scuola_digitale/) è figlio della Legge 107/2015 (nella retorica governativa, è quella nota come «La buona scuola») che al comma 56 dell’Art. 1 (peraltro l’unico) recita:

Al fine di sviluppare e di migliorare le competenze digitali degli studenti e di rendere la tecnologia digitale uno strumento didattico di costruzione delle competenze in generale, il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca adotta il Piano nazionale per la scuola digitale, in sinergia con la programmazione europea e regionale e con il Progetto strategico nazionale per la banda ultralarga.

Curiosamente nell’art. 15 della Legge 1859 del 1962, quella che istituiva la «scuola media unica», negli «Oneri dei comuni» si rilevava che questi fossero tenuti a fornire «locali idonei, l’arredamento, l’acqua, il telefono». Nella Legge 107/2015, e nel PNSD, per portare la rete nelle singole classi le scuole devono provvedere da sole, partecipando a inutili bandi (inutili perché l’esigenza è di ciascuna) o attingendo a risorse proprie (e tra queste, spesso, gioca un ruolo significativo il «contributo volontario» delle famiglie). Tutte queste complicazioni sono probabilmente legate al fatto che il PNSD attinge a Fondi Strutturali Europei la cui erogazione impone vincoli formali da soddisfare. La rete, quindi, la paga l’Europa.

È nel PNSD che viene istituita la figura dell’Animatore Digitale (AD), formalmente scelto secondo criteri definiti in autonomia dalle scuole, praticamente indicato dal Dirigente Scolastico per le scadenze fissate nella sua definizione. In estrema sintesi, definire i criteri di selezione in seno agli organi collegiali (Collegio dei Docenti e Consiglio d’Istituto), emettere una circolare con la chiamata delle candidature, la loro analisi in eventuali commissioni di valutazione e la conseguente selezione oggettiva avrebbe fatto scadere i termini di individuazione dei medesimi e i benefici conseguenti. Tra questi, l’elargizione alle scuole di 1000 euro che, ambiguamente, il MIUR non ha indicato come compenso per l’AD, e l’opportunità formativa offerta a quelle che per il MIUR diventano «figure di staff». Il modello ideale, in buona sostanza, è quello del piano di diffusione delle LIM di cinque anni fa, allorquando si immaginava che formando un consiglio di classe in ogni scuola, questo avrebbe svolto il ruolo pilota di diffusione della cultura didattica digitale nell’intera scuola, ma con qualche novità di contorno: la prima sono i 500 euro accreditati a ottobre a ciascun docente assunto a tempo indeterminato, un bonus che dà spazio all’iniziativa individuale, la seconda è il comma 125 dell’Art.1 della Legge 107/2015 dove si afferma che «Nell’ambito degli adempimenti connessi alla funzione docente, la formazione in servizio dei docenti di ruolo è obbligatoria, permanente e strutturale».

Va detto che l’istituzione dell’AD è spesso un doppione rispetto a quanto già presente nelle scuole tramite le funzioni strumentali che nell’Area 2, «Sostegno al lavoro dei docenti», già prevedevano l’«analisi dei bisogni formativi e gestione del Piano di formazione e aggiornamento» e «il coordinamento dell’utilizzo delle nuove tecnologie e biblioteca».

L’istituzione dell’AD, quindi, si configura come l’esplicitazione, sottolineata in maniera probabilmente un po’ troppo propagandistica, di una necessità diffusa di coordinamento sulle questioni legate alla digitalizzazione della scuola, con limiti aggiuntivi, invero, rispetto a quelli ereditati dalla precedente funzione strumentale. Mentre quest’ultima gode di un finanziamento specifico (di tre milioni di lire, quando fu istituita) ed è formalmente nominata a seguito di un voto dal Collegio dei Docenti, l’AD attingerà la sua remunerazione dall’elargizione dei mille euro di quest’anno, indicando il suo impegno in una sorta di mansionario, ma anche al pacchetto di valorizzazione del merito che, se è di 200 euro in media a docente, diventa appetibile solo se tale cifra si sposta su poche persone. L’AD eredita dalla funzione strumentale gli stessi limiti operativi legati alla mancanza di autonomia gestionale, visto che la sua azione sarà sempre subordinata all’approvazione e condivisione del Dirigente Scolastico che avrà l’ultima parola sulle sue iniziative. Tale limite, tuttavia, può essere superato dalla sua stessa nomina. Se prima poteva anche essere sgradito al DS, ma eletto dal Collegio dei Docenti, oggi quest’ultimo se lo nomina.

L’AD è nato «in corsa», mentre le scuole si stavano organizzando per la definizione del Piano Triennale dell’Offerta Formativa al quale è intrinsecamente legato. Le FAQ ministeriali (http://www.istruzione.it/allegati/2015/MIUR%20AOODGEFID%20REGISTRO_UFFICIALE(U)23331_07122015_FAQ_animatori_DIGITALI.pdf) che condensano una marea di leggi, decreti, allegati, linee guida, circolari sul tema, illustrano al punto 12 di cosa si occupa:

a. L’animatore coordina la diffusione dell’innovazione a scuola e le attività del PNSD anche previste nel piano nel Piano triennale dell’offerta formativa della propria scuola. Si tratta, quindi, di una figura di sistema e non un supporto tecnico (su questo, infatti, il PNSD prevede un’azione dedicata la #26 – le cui modalità attuative saranno dettagliate in un momento successivo. b. Il suo profilo (cfr. azione #28 del PNSD) è rivolto a:

FORMAZIONE INTERNA: stimolare la formazione interna alla scuola negli ambiti del PNSD, attraverso l’organizzazione di laboratori formativi (senza essere necessariamente un formatore), favorendo l’animazione e la partecipazione di tutta la comunità scolastica alle attività formative, come ad esempio quelle organizzate attraverso gli snodi formativi;

COINVOLGIMENTO DELLA COMUNITA’ SCOLASTICA: favorire la partecipazione e stimolare il protagonismo degli studenti nell’organizzazione di workshop e altre attività, anche strutturate, sui temi del PNSD, anche attraverso momenti formativi aperti alle famiglie e ad altri attori del territorio, per la realizzazione di una cultura digitale condivisa;

CREAZIONE DI SOLUZIONI INNOVATIVE: individuare soluzioni metodologiche e tecnologiche sostenibili da diffondere all’interno degli ambienti della scuola (es. uso di particolari strumenti per la didattica di cui la scuola si è dotata; la pratica di una metodologia comune; informazione su innovazioni esistenti in altre scuole; un laboratorio di coding per tutti gli studenti), coerenti con l’analisi dei fabbisogni della scuola stessa, anche in sinergia con attività di assistenza tecnica condotta da altre figure. c. Più in generale conosce la comunità scolastica e le sue esigenze, è una figura spesso già esistente e riconosciuta in molte scuole; laddove non esista, rappresenta una risorsa e l’occasione per avviare un percorso di innovazione digitale coerente con il fabbisogno della scuola.

L’Animatore Digitale può svolgere la sua funzione in molteplici modi. Vediamo come può essere motore di innovazione e quali facili discese lo portano verso la conservazione.

L’Animatore Digitale può favorire la comunicazione interna, ampliando gli spazi di lavoro del Collegio dei Docenti nella direzione di un’autentica discussione preventiva sui temi oggetto di deliberazione, attivando liste di discussione tra i docenti anche nelle articolazioni dei dipartimenti disciplinari, dei consigli di classe, del gruppo di lavoro per l’inclusione scolastica. Oppure può accentrare il dialogo digitale attorno alla sua persona.

L’Animatore Digitale può fare emergere le competenze latenti dei propri colleghi, coinvolgendole e valorizzandole in seno alle linee guida dell’aggiornamento d’istituto (condensate nel PTOF e nel Piano di Miglioramento che emerge dal Rapporto di Autovalutazione), oppure accentrarle su di sé, in particolare per assicurarsi una fetta più grande del Fondo d’Istituto, di quello sul merito o di quello assegnato alla sua funzione. Tale seconda opzione, naturalmente, innescherà meccanismi di delega e farà naufragare ogni possibile innovazione.

L’Animatore Digitale può promuovere un’adozione critica e graduale delle tecnologie, sottolineando l’ampliamento dello spettro delle possibilità didattiche, non solo frontali, ma anche di tipo laboratoriale, oppure presentare una carrellata di software e hardware salvifico che, inevitabilmente, si frantumerà sugli scogli dei risultati.

Come si vede le ambiguità collegate all’istituzione (verrebbe da dire «imposizione») di questa figura sono molte. Si tratta di nodi che saranno sciolti nel prossimo triennio, dal momento che questi mesi residui dell’anno scolastico 2015-2016 si configurano di fatto come una fase di transizione, prevalentemente dedicata alla formazione degli animatori: animatori che, come abbiamo visto, sono stati scelti secondo i criteri più diversi, a seconda degli umori e delle valutazioni soggettive dei singoli Dirigenti. In realtà, era possibile anche non individuarne nessuno, sebbene il finanziamento collegato a questa figura, per quanto esiguo, abbia comunque fatto gola e, presumibilmente, solo in pochi casi l’incarico è rimasto scoperto. Tuttavia è ipotizzabile che fra gli animatori competenza, sensibilità didattica, capacità relazionale, consapevolezza del proprio ruolo e delle proprie finalità siano estremamente diversificate, a seconda del grado di scuola, delle esperienze pregresse, del contesto lavorativo, dei vincoli strutturali presenti nelle singole realtà: e anche della propria individuale impostazione metodologica ed epistemologica. Sulla base di questa considerazione, è legittimo chiedersi in che modo sarà svolta la formazione territoriale degli AD: se come una discussione aperta e collaborativa sugli spunti e le problematiche aperte dall’introduzione del PNSD, discussione che eventualmente sostenga e incoraggi il lavoro degli AD, o come una sorta di indottrinamento che spinga in direzione di un’adozione forzata di soluzioni imposte dal centro, senza una chiara visione dei problemi delle singole scuole e, soprattutto, bypassando le vestigia residue dell’autonomia, peraltro già notevolmente ridotte dall’ampliamento dei poteri di indirizzo e scelta attribuiti dalla «Buona Scuola» al Dirigente.

Il rischio esiste. La scuola italiana è un sistema complesso, già ampiamente stressato dalle numerose trasformazioni che si sono avvicendate, non di rado in maniera contraddittoria, a partire dagli anni Novanta fino alla «Buona Scuola», rispetto alla quale la resistenza è stata fortissima e assai partecipata, sebbene praticamente ignorata dai decisori politici. Ma i docenti che hanno protestato sono gli stessi che, di fatto, dovrebbero attuare le ambiziose politiche di rinnovamento collegate al PNSD, che della «Buona Scuola» rappresenta un aspetto importante. In un recente intervento sul suo blog, Damien Lanfrey, uno dei padri del PNSD, sottolinea la necessità che le politiche pubbliche siano «d’impatto»: più specificatamente, secondo Lanfrey, l’impatto dovrebbe essere «la prima logica progettuale di una politica, e non un faticoso orpello frettolosamente chiamato monitoraggio, successivo all’investimento e all’azione». Si coglie in queste parole l’urgenza di garantire efficacia immediata ad un intervento politico che fa dell’innovazione ad ogni costo il suo asse portante, attraverso un benefico shock che avrebbe lo scopo di scuotere l’organizzazione scolastica sin dalle fondamenta. E di questo shock gli animatori digitali dovrebbero essere ambasciatori e artefici. Più specificatamente, nel medesimo post si afferma:

La rete degli animatori digitali diventerà la nostra network of innovators: come direbbero al GovLab della New York University, una Technology of expertise a nostra disposizione. La stessa costruzione di istruzioni su come utilizzare al meglio un laboratorio può diventare un oggetto sociale: mettendo il saper fare al centro, il Piano Scuola Digitale diventerà una comunità di tinkerers.

È apprezzabile il desiderio di cambiamento radicale che anima questi intenti, soprattutto in considerazione del fatto che in passato progetti altrettanto visionari e ambiziosi (ad esempio quella che potremmo considerare la madre – o la matrigna – di tutte le riforme successive, ovvero la Riforma Berlinguer) si sono arenati nella palude delle resistenze incrociate, dal basso e dall’alto.

Tuttavia c’è da chiedersi se si siano valutate adeguatamente le difficoltà. E soprattutto se si sia fatta una riflessione accurata sulle implicazioni pedagogiche e didattiche che la marcia verso l’innovazione comporta. E non perché innovare non sia urgente. Lo impone la presenza di strumenti digitali che, piaccia o meno, stanno trasformando e integrando il tradizionale paradigma di acquisizione dell’informazione e della conoscenza. Ma la tabula rasa di quello che già c’è non sembrerebbe la strategia migliore. Perché è vero che, come recitava McLuhan, «il mezzo è il messaggio», ma non tutti i mezzi sono egualmente efficaci e non tutti i messaggi possono sottoporsi, senza profonde conseguenze, alla metamorfosi imposta da un certo tipo di «colonialismo digitale», secondo la formula che dà il titolo ad un interessante pamphlet di Roberto Casati (Casati 2013), un colonialismo che, per quanto pervasivo, spesso agisce in modo frammentario ed episodico, talvolta improvvisato.

Per esempio all’interno del PNSD sembra quantomeno sfocata la riflessione a proposito del curriculum attuale, per esempio per quanto riguarda le materie umanistiche (ma non solo), a parte un generico riferimento alle discipline STEAM. Si potrebbe quasi affermare che il PNSD immagini una scuola che ancora non c’è, senza dire con esattezza che cosa dobbiamo fare della scuola che esiste nella realtà, con le sue scansioni temporali, la sua organizzazione spaziale, la sua periodica ritualità (scrutini, esami), la sua documentalità tradizionale, i suoi obblighi normativi sempre in vigore.

Dicevamo della didattica. Certo, sarebbe auspicabile una riflessione profonda, ad esempio, sul significato del termine «competenza», sia che lo si usi in senso ampio, sia che lo si applichi in modo specifico al contesto digitale: perché, anche dal punto di vista teorico, il nodo del rapporto fra competenze e conoscenza è tutt’altro che sciolto (si veda, ad esempio, Greblo 2013, Chiosso 2016, ma la discussione è vivace), a meno che non si voglia accettare la vulgata semplicistica che interpreta conoscenza esclusivamente come «nozione» appresa acriticamente (così come «competenza» di sicuro non dovrebbe coincidere con il saper eseguire meccanicamente procedure, per quanto esse siano, o sembrino, efficaci rispetto allo scopo che ci si prefigge). Ma è ovvio che dal decisore politico è improprio attendersi un approfondimento di questo tipo: sebbene, forse, si dovrebbe evitare di entrare a gamba tesa nella possibilità concesse al docente di attuare autonomamente strategie didattiche che prevedano anche, ma non esclusivamente, e comunque non acriticamente, l’utilizzo della tecnologia.

Altrimenti si rischia di cadere in quello che Morozov (2013) definisce «soluzionismo», la fiducia ingenua che Internet e tutto ciò che è modellato su Internet rappresenti la soluzione a problemi complessi. E di sicuro ragionare, oggi, sulle finalità che la scuola dovrebbe proporsi rappresenta un problema complesso: perché stare a scuola, per gli insegnanti come per gli studenti, implica affrontare sfide su piani diversi dalla semplice acquisizione-valutazione di conoscenze/competenze, e dalla loro successiva pubblicizzazione in curriculum professionali funzionali. Ancora oggi l’annosa dicotomia «educazione vs istruzione» non sembra compiutamente risolta, né nelle micropratiche didattiche né a livello di sistema: i termini non sono chiari, le richieste sono contraddittorie, così come gli obblighi da ottemperare (ad esempio, come già abbiamo accennato, procedere alla valutazione periodica, preparare i ragazzi agli esami, certificare in modo standardizzato le competenze raggiunte). Al tempo stesso insegnare implica anche costruire relazioni umane significative, così come rispondere alla domanda di senso che sta alla base di ogni apprendimento efficace: riflettere sulle motivazioni esterne ed interne, agire sulle differenze e le disparità, spesso profonde, sia sociali che individuali, affrontare il disagio, così frequente nel nostro tempo che, non a caso, è stato definito l’«epoca delle passioni tristi» (Benasayag e Schmit 2004). E rispetto a un proposito «spinto» di innovazione, comunque lo si voglia declinare, non sembrano immuni da conseguenze l’età media piuttosto avanzata dei docenti italiani (secondo i dati OCSE) o la diffusione preoccupante, fra gli insegnanti, di fenomeni di logoramento psicologico fino al vero e proprio burn out o, come accennavamo precedentemente, la resistenza vivace, per niente spezzata, che molti ancora manifestano e praticano nei confronti della riforma appena avviata (si vedano i collegi che hanno rifiutato di nominare la componente docente del comitato di valutazione o l’avvio recentissimo di un nuovo processo referendario mirante all’abolizione delle parti più qualificanti della «Buona Scuola»).

Questo, dunque, lo scenario difficile che fa da sfondo all’istituzione della figura dell’Animatore Digitale. Da un punto di vista meramente organizzativo e burocratico, voci autorevoli si sono levate a sottolineare i rischi connessi all’ambiguità del ruolo. Ad esempio sulla rivista telematica Agendadigitale.eu Pietro Blu Giandonato ha invocato la necessità di istituire nelle scuole una strategia di «middle management» ovvero «figure con responsabilità intermedie che collaborano strettamente con il DS, come avviene in ogni organizzazione complessa», evitando così il prevedibile isolamento e l’autoreferenzialità che rischia di inficiare e rendere velleitario il lavoro di un solo AD per scuola. Fra l’altro si tratterebbe di un passaggio obbligato in direzione di una possibile «carriera docente» che preveda anche congrui incentivi economici. In realtà, come abbiamo già detto, non è stato sciolto, a parte vaghe promesse, il nodo della retribuzione, attuale e futura, di questa figura: forse perché, senza voler considerare la carenza di risorse, non esistono sufficienti garanzie sulla sua effettiva competenza. In effetti, data la delicatezza, almeno in linea di principio, del suo compito, se la sua preparazione fosse sempre del tutto adeguata, la sua valorizzazione, anche economica, dovrebbe essere conseguente: si tratterebbe di un vero e proprio «specialista». Allo stato attuale delle cose, gli AD sono persone di buona volontà, scelte in modo abbastanza casuale, talvolta molto competenti, talaltra non particolarmente preparati: e quindi non in grado di rivendicare alcunché.

Del resto anche Paolo Ferri, nel suo recentissimo intervento “Scuola digitale, tutti gli inghippi che possono mandare a monte i piani di Renzi” (sempre su Agendadigitale.eu) elenca tutte le trappole che possono rallentare e insabbiare il PNSD, a cominciare dall’opacità dei criteri con i quali, in molti casi, sono stati scelti gli animatori digitali, per arrivare alle previste carenze organizzative della formazione loro riservata. E consiglia l’istituzione di una task force di ispettori indipendenti che controlli e verifichi a tappeto l’effettiva attuazione del PNSD.

Ma dobbiamo chiederci anche altro. Il nostro assunto di base è, come abbiamo già accennato, questo: il ruolo di AD può essere interpretato in modi molto diversi. L’animatore può essere una figura sbiadita, vuoi per inesperienza, vuoi per mancanza di reale supporto da parte dei colleghi e della dirigenza; può entrare in fatale contrasto con esperienze già presenti, se è stato scelto in opposizione o alternativa a queste ultime; può essere l’alfiere entusiasta dei diktat «digitali» del MIUR; può essere frenato da vincoli strutturali e materiali o, al contrario, supportato dalla ricchezza delle risorse già presenti (secondo l’effetto San Matteo, ben noto in sociologia, in virtù del quale «the rich get richer and the poor get poorer»); può anche giocare la carta della consapevolezza critica della posta in gioco connessa alla partita dell’innovazione, muovendosi in una direzione imprevista rispetto a certo fondamentalismo digitale che sembra ispirare il PNSD. Del resto le strade della Rete sono molteplici: per esempio nelle comunità di pratica che si sono spontaneamente formate a sostegno della nuova figura, non si parla con un’unica voce e se da un lato si condividono suggerimenti tecnici, indicazioni operative, informazioni su app, siti e servizi utili alla didattica, dall’altro non mancano espressioni di disagio, dubbio, difficoltà, nonché tentativi di percorrere strade diverse, per esempio attraverso la riflessione sul tuttora irrisolto rapporto fra pensiero critico e l’osannato pensiero computazionale.


In altre parole, anche nel caso degli animatori digitali si realizza una dinamica che negli ultimi anni sempre più sembra caratterizzare la Rete. Ai microprocessi di innovazione didattica che hanno luogo a partire dall’interazione peer to peer, nell’ottica di una sperimentazione diffusa, artigianale, spontaneamente collaborativa, ispirata alla condivisione creativa, sembra contrapporsi un approccio ufficiale ben più strutturato e articolato, almeno nelle premesse e nelle ambizioni, non immune da implicazioni di tipo economico e ideologico sul ruolo attuale dell’educazione e, in prospettiva, potenzialmente in concorrenza non solo con il paradigma tradizionale ma anche con i germi di cambiamento già presenti nel sistema, che vengono «normalizzati» per adattarsi agli interessi degli stakeholders digitali più potenti. Un approccio del quale l’Animatore dovrebbe essere portavoce unico. D’altra parte il PNSD è un documento lungo e complesso, che raccoglie in un unico contenitore elementi che attengono a diversi aspetti della scuola: burocratico, amministrativo, organizzativo, didattico etc. Proprio questa sua apparente esaustività corre il pericolo di essere il suo tallone di Achille: perché finisce per dire tutto e nulla, per moltiplicare suggerimenti, indicazioni, obblighi, riferimenti teorici e normativi non sempre fra loro coerenti, senza contare la già evidente difficoltà nel rispettare le tempistiche previste. E quindi si rischia concretamente di favorire l’adozione di scorciatoie e semplificazioni nella scelta delle pratiche e degli strumenti. O, peggio ancora, di promuovere un’innovazione solo di facciata che, allo stesso tempo, soffochi le buone pratiche già in essere.

Questo è, al momento, lo stato dell’arte. Già nel corso del 2016 sarà possibile vedere se comunque dalla confusione iniziale nascerà qualcosa di buono, come auspichiamo, o se il PNSD e i suoi cavalieri, gli animatori digitali, si riveleranno l’ennesima occasione sprecata di effettivo miglioramento e reale trasformazione.


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